Matteo Renzi nel suo viaggio in USA ha tirato fuori dal cilindro, oltre ai discorsi in inglese con un periodare che ricorda tanto quello di Ciriaco De Mita quando parlava all’ONU, i soliti refrain (termine inglese che significa – curiosamente – sia ritornello che frenata) triti, tristi, frusti e ormai inflazionati:
“Grazie ai miei violenti cambiamenti, l’Italia riprenderà la leadership d’Europa” e ancora, “chi non crede in me è gufo”, “chi non è con me, benaltrista è”, “chi non salta insieme a me, frenatore è” … bla bla bla…
Tutto da godere l’intervento di Renzi al Council on Foreign Relations, una delle più importanti superlogge massoniche mondiali, dissimulata da think thank e che annovera tra i suoi fondatori David N. Rockefeller, uno dei vertici della Massoneria Cabalista, fondatore, tra le altre, di Bilderberg Group e Trilateral Commission.
L’Italia è avviata ad un lento declino. Grazie alle riforme renziste – anzi renzusconiste – non sarà morte lenta ma un veloce ITALICIDIO!
I dati parlano chiaro. Da quando è stato nominato Mario Monti, il primo dell’infinita sequela di premier nominati ma non votati, l’economia italiana è letteralmente implosa. Dal 2007 ad oggi (articolo di Libreidee “Missione compiuta, l’Italia muore: la catastrofe in cifre”),
Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. (…)
Secondo gli analisti di “Sollevazione”, la resa matematica dell’Italia rivelata dai conti permette anche di «capire come le politiche austeritarie per tenere in piedi l’euro, il sistema bancocratico e il capitalismo-casinò, abbiano affossato il nostro paese», il cui Pil ha perso 8,7 punti percentuali a partire dal 2007, inclusa la manipolazione dello spread che ha “armato” la gigantesca manomissione operata da Monti e Fornero, con la loro “spending review” e la riforma-suicidio delle pensioni. Un’agenda peraltro proseguita da Letta: tagliare la spesa, ben sapendo che il “risparmio” dello Stato manda in crisi il settore privato, facendo calare il gettito fiscale e quindi esplodere il debito pubblico. Matteo Renzi? Niente di nuovo: neoliberismo puro, a cominciare dal Jobs Act per precarizzare ulteriormente il lavoro. Aggravanti: la neutralizzazione delle ultime difese sociali garantite dalla Costituzione, come vuole l’élite finanziaria, e l’eliminazione fisica dell’opposizione attraverso una legge elettorale come l’Italicum, definita peggiore – per le sue restrizioni – di quella che permise a Mussolini di consolidare il neonato regime fascista.
Tutto questo, mentre il paese soccombe ogni giorno: in sei anni, il Pil pro capite è calato di 9 punti (di 10, invece, il reddito reale disponibile per le famiglie). Stesse percentuali per la frana della ricchezza nazionale: -9% dal 2007 al 2013, pari a 843 miliardi di euro. C’era una volta l’Italia: nello stesso periodo, la produzione industriale è crollata addirittura del 25,5%. Sta andando in frantumi, grazie alla politica imposta da Berlino, il maggior competitore europeo della Germania. Tra il 2001 e in 2013, l’Italia ha perso 120.000 fabbriche. Sono cifre da scenario bellico, e non sono riguardano solo l’industria: ci sono anche le 75.000 imprese artigiane costrette a chiudere. Anno record per il fallimenti, l’infame 2013 delle “larghe intese”: qualcosa come 111.000 fallimenti, in appena dodici mesi. Contraccolpo catastrofico, la disoccupazione: dal 2001, con l’ingresso nell’Eurozona, l’industria italiana ha perso un milione e 160.000 posti di lavoro. Colpa anche dell’assenza di credito: nonostante ricevano denaro dalla Bce a tassi «prossimi allo zero», le banche continuano a finanziare le imprese con prestiti al 4,49%, mentre negli altri paesi dell’Eurozona l’interesse medio è al 3,8%.
Anche così il lavoro si estingue alla velocità della luce. Dal 2007, la piaga della disoccupazione è più che raddoppiata: dal 6,1% al 12,7 attuale. «I disoccupati ufficiali sono 3 milioni e 300.000», rileva “Sollevazione”, ai quali vanno però aggiunti «altri 3 milioni di persone», che ormai non si rivolgono neppure più ai centri per l’impiego: i cosiddetti “sfiduciati” fanno salire a quasi 6 milioni e mezzo il totale dei disoccupati italiani, proprio mentre la Germania del super-export vede salire ai massimi storici la quota degli occupati. C’è anche il trucco, naturalmente: un tedesco su quattro accetta i mini-job da 450 euro al mese. E’ la strada aperta in Italia dal Jobs Act di Renzi, di fronte a una platea oceanica di giovani senza lavoro: il 43%, più del doppio dei ragazzi disoccupati nel 2007. Sta male, comunque, la stragrande maggioranza dei salari italiani: «Con uno stipendio netto di 21.374 dollari l’anno, l’Italia si colloca al 23esimo posto nella classifica Ocse: se la passano peggio solo i portoghesi e gli abitanti dei paesi dell’Europa orientale». A valanga, la mancanza di impiego si traduce in forte calo dei consumi familiari, tagliati di quasi il 10% solo negli ultimi due anni. A farne le spese è anche il risparmio, continuamente eroso per far fronte all’emergenza economica, mentre la super-tassazione disposta dall’Ue ha raggiunto per l’Italia il 44% del Pil. (…)
E’ un circolo vizioso: imporre più tasse a chi già le paga, per tentare (inutilmente) di arginare il calo delle entrate, comunque – già oggi – superiori alla somma delle uscite: situazione che sarà ulteriormente aggravata dal Fiscal Compact e cronicizzata dall’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. In pratica, la fine dello Stato sociale e delle garanzie sui servizi vitali – scuola e sanità in primis, peraltro minacciate di privatizzazione forzata dal Ttip e dal Tisa, i trattati segreti euro-atlantici imposti dagli Usa, che Renzi preme per approvare in fretta. Cartina di tornasole di questa autentica catastrofe, il debito pubblico: era pari al 103,3% del Pil nel 2007, ma ha raggiunto il 132,9% nel 2013. «L’ultimo rilevamento di Bankitalia ci dice che il debito pubblico ha toccato a maggio 2014 un nuovo record storico: quota 2.166,3 miliardi, con un aumento di 20 miliardi sul mese precedente».
Va in rosso il conto delle famiglie, nel paese che prima dell’avvento dell’euro era il più risparmiatore d’Europa: rispetto al Pil, dal 1998 al 2012 il debito privato delle imprese è passato dall’85 al 120%, quello delle banche dal 40 al 110%, quello delle famiglie dal 30 al 50%. Paradossalmente, osserva “Sollevazione”, «in questo periodo quello che è cresciuto meno è stato proprio il debito pubblico», mentre il debito aggregato – pubblico e privato – è letteralmente esploso, dal 275% ad oltre il 400%. Spaventose pure le sofferenze bancarie, cresciute di 100 miliardi dal 2007 al 2013, per un totale di 147,3 miliardi di euro. Ed ecco l’ultimo gradino della tragedia: la povertà. Un fantasma che mette paura: l’esercito dei nuovi poveri e il timore che crescano furti e rapine ha aumentato del 5,7% i denari lasciati in custodia alle banche, oltre 1,2 miliardi di euro. Secondo Eurostat, gli «individui a rischio povertà o esclusione sociale» nel 2008 erano in Italia il 25,3%, e sono diventati il 29,9% nel 2012. L’Istat è ancora più preciso: «Un italiano su dieci è in povertà assoluta». (…)
«E’ povera, o quasi povera, una famiglia su cinque». Poi c’è la “povertà relativa”, quelle delle famiglie (sono quasi 3 milioni e mezzo) il cui portafoglio mensile è inferiore alla spesa media nazionale, 972 euro al mese. Sono famiglie che cercano di sopravvivere con meno di 800 euro al mese, che si riducono a meno di 750 nel Mezzogiorno, dove più evidenti sono le diseguaglianze che la “crisi” ha fatto esplodere. Nel 1992, l’Italia era un paese relativamente equilibrato: non c’era un abisso tra ricchi e poveri e la classe media era in ottima salute. Oggi, praticamente, è in via di estinzione e teme di sprofondare giorno per giorno verso la povertà. Nel 2013, l’Italia è risultato «il paese più diseguale dell’Unione Europea, dopo la Gran Bretagna». Solo che il Regno Unito non è ingabbiato dall’euro. Infatti, a Londra, economia e occupazione stanno decisamente meglio rispetto alla media dell’atroce Eurozona, di cui l’Italia – dopo la Grecia – è la vittima principale.
Ricordiamo che, a seguito del golpe dello spread, vennero imposti all’Italia Mario Monti e la sua Montinomics, con il pretesto che avrebbe ridotto il debito pubblico.
Il rapporto debito/PIL è aumentato, in soli tre anni, di quasi 25 punti percentuali mentre il debito pubblico è schizzato, grazie a Monti e ai suoi epigoni successivi, da 1850 miliardi di euro all’astronomica cifra di 2150 miliardi di euro.
Monti, Letta e Renzi hanno aumentato il debito pubblico di 100 miliardi di euro l’anno!
Monti. però, ha ottenuto il risultato tanto agognato dalla UE germanocentrica: la distruzione della domanda interna e la proletarizzazione del ceto medio italiano, con i tristi corollari di disoccupazione, fallimenti, suicidi e povertà.
Ecco come l’ex presidente della sezione europea di Trilateral si vanta, con sussiego di tale “successo”, in un’intervista concessa alla CNN:
Le poche ricchezze degli Italiani erano, nel 2011, la casa di proprietà, un sistema pensionistico morbido e la tutela del reintegro prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
La scure si abbatte immediatamente sul mattone, sotto la spinta di Angela Merkel che mal sopporta il fatto che l’81% degli Italiani abbia una casa di proprietà mentre, al contrario in Germania, pur con stipendi molto più elevati di quelli italiani, meno della metà dei tedeschi ha una casa propria. I Tedeschi sono notariamente troppo pigri e ben poco intraprendenti per darsi da fare per raggiungere questo obiettivo. Tale circostanza ha, però, sempre generato livore e invidia tedesca nei confronti degli Italiani.
Mario Monti, con il pieno appoggio del Partito Delle Tasse, il PD, si è immediatamente messo in azione e oggi “in Italia chi ha una casa di proprietà viene spolpato dalle tasse”:
Tanti sacrifici, il mutuo pluriennale e infinito e poi? Avere una casa di proprietà in Italia significa avere un continuo pozzo in cui gettare soldi che vanno al fisco. La Cgia di Mestre ha valutato per il 2014 +3 mld di tasse sugli immobili, con l’obiettivo di fare cassa. In pratica, il peso fiscale sugli immobili supererà, i 52 miliardi di euro, ben 2,9 miliardi in più rispetto al 2013, complice anche l’introduzione della Tasi. L’Ufficio studi della Cgia spiega attraverso il segretario Giuseppe Bortolussi: “Solo il gettito riconducibile al possesso dell’immobile – aggiunge il segretario Cgia – ha subito un vera e propria impennata: dal 2007 ad oggi è cresciuto del 78 percento. Tra l’Imu, la Tasi e il nuovo prelievo sui rifiuti, quest’anno pagheremo quasi 31 miliardi di euro. Questo importo incide sul prelievo totale per quasi il 60%. Tenendo conto di tutto il sistema fiscale che grava sul mattone, nel 2014 i proprietari di immobili pagheranno quasi 3 miliardi in più rispetto al 2013. Una buona parte di questo aumento va addebitato all’introduzione della Tasi.
Solo sulla prima casa la tassazione è passata dai 10 miliardi di euro pre-Monti agli attuali 27-28 miliardi di euro.
Grazie alla tartassazione sul mattone, a partire dal nominato Monti fino all’attuale nominato Renzi, le compravendite immobiliari sono letteralmente crollate, Già nel 2012 gli acquisti immobiliari erano tornati al livello del 1987:
In termini assoluti se il secondo semestre 2012 continuasse con questo trend (ma a dire la verità sembrerebbe che il trend sia addirittura in fase di ulteriore peggioramento), le compravendite finali dell’anno 2012 sarebbero pari a circa 460.000 unità. Tale livello è circa pari a quello avvenuto nell’anno 1987. Possiamo dedurne che la bolla speculativa che ha caratterizzato il mercato immobiliare negli ultimi 10 anni, si sia letteralmente riassorbita almeno dal punto di vista delle compravendite immobiliari nel settore residenziale. Il calo totale dai massimi del 2006 dovrebbe attestarsi a circa -47%
Secondo un rapporto del Censis, si
sono dimezzate, dal 2007 al 2013, le vendite nel mercato immobiliare italiano. Dopo un decennio ad alti livelli, quello dal 1997 al 2007, con l’avvento della crisi è iniziata una flessione che ha portato dalle 807 mila compravendite di case nel 2007, alle 403 mila del 2013. Per ritrovare una stagnazione del mercato come quella dell’ultimo anno si deve tornare al 1984. (…)
Se si prende in considerazione il fatturato riferito al settore abitativo del 2008, primo anno di crisi economica, e quello del 2013, si vede come si sia passato da un flusso di denaro pari a 112 miliardi di euro a 68 miliardi. Lo stesso trend lo si ritrova nel mercato degli immobili ad uso commerciale, lavorativo e industriale, con un calo da 25,4 miliardi di euro a 12,1. La compravendita di uffici, infatti registra una flessione del mercato del 50,9%, mentre il settore commerciale e il mercato dei capannoni industriali chiudono rispettivamente con un -55,1% e un -50,6%.
A frenare la ripresa, secondo il Censis, sono le tasse sugli immobili, che per in autunno assesteranno un altro colpo ai risparmi degli italiani con il pagamento di Imu, Tasi e Tari, e il calo del reddito disponibile, ossia il denaro che le famiglie possono spendere, calato del 9,8% dal 2008 al 2013 (fonte: il Fatto Quotidiano).
Quello che non tutti sanno è che nella delega fiscale è previsto il passaggio epocale dalla tassazione fondata sulla rendita catastale a quella imposta in relazione al valore di mercato. Ma i valori di mercato, spesso, fanno riferimento ai valori pre-crisi. In poche parole, se volete vendere il vostro immobile dovete rassegnarvi a perdere almeno il 30% rispetto a quanto era valutato nel 2006, ma la tassazione avverrà in base a valori più alti, anche se non più attuali.
I governi che si sono succeduti dal golpe dello spread a oggi si sono sempre impegnati “nell’invarianza del gettito”, a saldo zero per lo Stato, propaganda costruita per gli ingenui che ci credono.
Come i famosi #80euro, che avrebbero dovuto rilanciare l’economia, ma l’effetto è stato nullo se non addirittura negativo, essendo state sottratte risorse esiziali agli investimenti produttivi, mentre l’Italia è ora in piena recessione, con un PIL che sarà inferiore di quasi 1 punto percentuale rispetto allo scorso anno.
Utili gli 80 euro solo per costruirsi un bacino elettorale e passare dal 25% – ottenuto dal PD alle politiche 2013 – all’attuale 40% accreditato dagli ultimi sondaggi.
Le invenzioni populiste dell’omino dalla camicia bianca, simili a quelle dell’altro sempre in camicia, però nera, servono alla captatio benevolentiae dei tanti disperati per i quali gli 80 euro hanno rappresentato una piccola boccata d’ossigeno e servono per “parlare direttamente al popolo”, senza intermediari, liquidando o assoggettando via via tutti i corpi intermedi e democratici, compresi Parlamento, partiti e sindacati. E circondandosi di collaboratori totalmente inadatti, la cui cooptazione è determinata dall’appartenenza al cerchio magico fiorentino.
Afferma, infatti, Ferruccio De Bortoli in un recente editoriale pubblicato sul Corriere della Sera:
La (…) squadra di governo [di Renzi] è in qualche caso di una debolezza disarmante. Si faranno, si dice. Il sospetto diffuso è che alcuni ministri siano stati scelti per non far ombra al premier. La competenza appare un criterio secondario. L’esperienza un intralcio, non una necessità. Persino il ruolo del ministro dell’Economia, l’ottimo Padoan, è svilito dai troppi consulenti di Palazzo Chigi. Il dissenso (Delrio?) è guardato con sospetto. L’irruenza può essere una virtù, scuote la palude, ma non sempre è preferibile alla saggezza negoziale. La muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan. Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto. Circondarsi di forze giovanili è un grande merito. Lo è meno se la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier. E se addirittura a prevalere è la toscanità, il dubbio è fondato.
Una delle invenzioni populiste riguarda la soppressione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, lo scalpo da portare ai poteri forti internazionali – banche, speculatori finanziari, eurocrati – che appena due anni fa era da mantenere, a detta di Renzi il quale, fino all’incontro con Mario Draghi del 12 agosto 2014 (il notorio patto dell’elicottero) aggiungeva, inoltre, che l’articolo 18 era un non problema, la cause del calo degli investimenti erano altre, condividendo allora quanto scrive “il Giornale”: «gli investimenti diretti esteri in Italia, infatti, sono stati pari a 12,4 miliardi di euro nel 2013, il 58% in mento rispetto al 2007 (l’anno prima dell’inizio della crisi. Nonostante sia ancora oggi la seconda potenza manifatturiera d’Europa e la quinta nel mondo, il nostro Paese detiene solo l’1,6% dello stock mondiale di investimenti esteri, contro il 2,8% della Spagna, il 3,1% della Germania, il 4,8% della Francia, il 5,8% del Regno Unito. Tutta colpa del deficit reputazionale accumulato negli anni a causa di corruzione diffusa, scandali politici, pervasività della criminalità organizzata, lentezza della giustizia civile, farraginosità di leggi e regolamenti, inefficienza della pubblica amministrazione, infrastrutture carenti. E della burocrazia che frena gli imprenditori italiani, figuriamoci quelli stranieri».
Questo è il link che lo prova, di “Servizio Pubblico” dal titolo. “Renzi lo smemorato e l’articolo 18”.
Di tutte le falsità renziste, quella del Jobs Act è la peggiore, perché non aumenterà l’occupazione, anzi centinaia di migliaia di cinquantenni rischiano en masse il licenziamento, provocando il collasso definitivo del PIL italiano. Se già adesso è impossibiler tornare ai livelli occupazionali pre-crisi, grazie al Jobs act renzista torneremo letteralmente al Medioevo.
Il vero intento è di trasformare i lavoratori italiani in schiavi, con diritti e salari inferiori persino a quelli cinesi. I glebae addicti del XXI secolo. Come scrive, infatti, Giorgio Cremaschi, il Jobs Act è un manifesto della malafede:
Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs act per ignoranza o per pura menzogna.
Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti. Costoro in realtà nella loro crescita non incontreranno mai più l’articolo 18, quindi il loro contratto a tempo indeterminato in realtà sarà finto, perché essi saranno licenziabili in qualsiasi momento. Un contratto a termine al minuto, una ipocrita beffa. L’articolo 18 resterà come patrimonio personale dei vecchi assunti, quindi non solo mano mano si ridurrà la platea di chi usufruisce di quel diritto, ma saranno la stesse imprese a essere poste in tentazione di accelerare il ricambio dei loro dipendenti. Perché tenersi il lavoratore che ha ancora la tutela dell’articolo 18, quando se ne può assumere uno senza, pagato un terzo in meno?
Renzi non fa niente di nuovo, anzi applica il principio classico degli accordi di concertazione: il “doppio regime”. I diritti contrattuali, le retribuzioni, le condizioni di orario e le qualifiche, l’accesso alla pensione, son stati negli ultimi trenta anni ridotti per tutti, ma ai nuovi assunti venivano negati completamente, a quelli con più anzianità di lavoro invece un poco restavano. I diritti non potevano più essere trasmessi da una generazione all’altra, ma diventavano una sorta di rendita personale per le generazioni che abbandonavano il lavoro. Questi accordi, sottoscritti dai sindacati confederali e applauditi dagli innovatori ora fan di Renzi, hanno creato l’apartheid. Renzi stesso mente sapendo di mentire quando sostiene di voler abolire la disparità di diritti, invece tutti i suoi provvedimenti la rafforzano ed estendono. Il Jobs act aggiunge ferocia a ferocia, non cambierà nulla nelle dimensioni della disoccupazione anzi i disoccupati aumenteranno, come è avvenuto in Grecia e Spagna che hanno per prime seguito la via oggi percorsa dal governo. Il Jobs act non risolverà uno solo dei problemi produttivi delle imprese, soprattutto di quelle più piccole che non hanno mai avuto l’articolo 18, ma che sono in crisi più delle grandi. E allora perché si fa?
Perché come scrivevano il 5 agosto 2011 Draghi e Trichet e come aggiungeva nel 2013 la banca Morgan, la protezione costituzionale del lavoro è un lusso che l’Italia non può più permettersi. I padroni d’Europa e della finanza vogliono un lavoro low cost in una società low cost, e tutto ciò che si oppone a questo loro disegno va trattato come un nemico. CGIL CISL UIL in questi anni han lasciato passare tutto, sono state di una passività che il presidente del consiglio Monti arrivò persino a vantare all’estero. Eppure a Renzi non basta ancora, per lui i sindacati devono generosamente suicidarsi per fare spazio al nuovo.
E questa è la seconda vera ragione del Jobs act e del fanatismo con cui viene sostenuto: il valore simbolico reazionario dell’attacco all’articolo 18, che Renzi fa proprio per mettersi a capo di un regime. Un regime che non è il fascismo del secolo scorso, ma è un sistema autoritario che nega la sostanza sociale della nostra Costituzione e riduce la democrazia ad una parvenza formale, fondata sul plebiscitarismo mediatico e sull’assenza di diritti veri.
Il Jobs act è parte di una restaurazione sociale e politica peggiore di quella della signora Thatcher, perché fatta trent’anni dopo. Una restaurazione con la quale si pensa di affrontare la crisi economica per rendere permanenti le politiche di austerità, che, secondo la signora Lagarde direttrice del Fondo Monetario Internazionale, in Europa non son neppure cominciate. Una restaurazione che nel paese del gattopardo richiede un ceto politico avventuriero disposto a interpretarla come il nuovo che avanza.
Per questo il governo Renzi è il governo della menzogna e l’affermazione della verità è il primo atto di resistenza contro il regime che vuole costruire.
Cari Italiani, vi stanno bischerando: le tasse aumentano mentre i vostri stipendi diminuiscono, grazie al demansionamento i vostri salari saranno al livello del terzo mondo e potrete essere licenziati solo perché girano al vostro datore, dovrete usare i pannoloni sul lavoro perché il panoptikon renzista non permetterà che lasciate il vostro tornio o la vostra scrivania, stanno tagliando le pensioni, seppellendo la scuola pubblica, sopprimendo la sanità pubblica e se oserete scioperare, manifestare o protestare per disperazione, useranno contro di voi persino i taser.
I poteri forti internazionali complottano per distruggere economicamente l’Italia e per depredare le ricchezze nazionali e private. In poche parole, liquidano il vostro futuro.
Ma voi siete troppo impegnati a farvi i selfie, a fotografare l’ultimo aperitivo in riva al mare, a postare le foto del vostro pranzo al ristorante e a riempire di contumelie gli account Facebook della squadra di calcio che odiate.
Citando il giornalista economico Paolo Barnard:
La gente non capisce niente, la gente va coi buffoni di moda, vota gli 80 euro, e soprattutto anche mai dovessero aver intuito qualcosa, alla fine non fanno niente, nulla, morti davanti alla Tv o stramorti davanti al pc. (…)
E noi ve lo diciamo e ridiciamo e ri-ri-diciamo, ma no. Nulla. Boing… Boing… Boing… Boing…
Finché potete, godetevi i vostri profili FB e Twitter…
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